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DIARIO DI BORDO

APPROFONDIMENTO E VIAGGIO NELLA REALIZZAZIONE DEL TORQUATO TASSO DI GOETHE
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IL TEMPO DELLA PROVA: INDAGINE SUL TESTO DI GOETHE DALLA PAROLA AL CORPO
Di Giorgia Leuratti

LA DIMENSIONE DEL BACKSTAGE COME SPAZIO IN FIERI, NECESSARIO A VARCARE LA SOGLIA DEI SOTTOTESTI POSSIBILI 

Non siamo ora spettatori di un’opera finita, non assistiamo alla compiutezza di una piéce conclusa la cui aspirazione non può esser che quella di farsi manifesta; siamo in un tempo in fieri, in uno spazio in divenire che subitamente svela un sostrato non altrimenti suscettibile ad essere captato. Viviamo in questi giorni la dimensione del retroscena, quella del Torquato Tasso di Johann W. Goethe che attraverso il lavoro della Compagnia Teatrale Zerkalo e dell’opera registica di Alessandro Machia, e ancora, per mezzo dell’assiduo operato di ognuna delle maestranze, sancisce il passaggio dalla parola al corpo, illinfa il testo interrogandosi sulla sua stratificazione. Lo spazio della prova, come e diversamente dallo spazio della messa in scena, si fa terreno dell’atto unico e irripetibile, processo di emersione della componente sotterranea dell’atto stesso, del suo sottosuolo di significato.  I personaggi cambiano in scena, guidati dalla voce registica prendono atto dei legami fino ad allora imperscrutabili tra il  significato e lo spettro dei significanti possibili. Tra l’invisibile e il percettibile. Ciò che più induce a soffermarsi in questa sede, è constatare come nell’opera di realizzazione e forse di continua ri-creazione dei personaggi sia sotteso, irrinunciabilmente, il dialogo tra le parti. Inteso nel modo più etimologico del termine il διάλογος è ciò che si compie attraverso il discorso, ciò che muove e articola tanto la trama delle personalità professionali in gioco, quanto quella che va ad instaurarsi tra personaggio e personaggio, tra oggetto e personaggio, tra scena e oggetto.

Nei giorni di prova, tenutisi nella sede di Nova Danza Roma, primario indirizzo della ricerca è stato quello diretto a sondare la natura della spazialità, delle interazioni e delle intermittenze che nel crono spazio andavano ad instaurarsi; delle modalità secondo cui quel dato luogo andava a plasmarsi, attraverso la variazione della voce; a farsi sempre più aptico tramite il movimento.  Ogni variazione - vocale, dinamica o interpretativa-  ha spalancato la possibilità di varcare nuovi territori di significato. Ogni elemento andava a creare un’immagine, ogni presenza presupponeva un’assenza:  anche l’invisibile sulla scena appariva visibile poiché ad esso tutto il resto faceva riferimento. “Abbiamo gli alberi, qui non abbiamo i poeti; abbiamo le bestie …”- per restituire concretezza a quanto detto prendo spunto dalla soprastante indicazione registica: rivolgendosi agli attori mentre attraversava la sala, Machia forniva suggerimenti su ciò che avrebbe poi abitato la scena esortando così gli attori ad entrarvi in connessione. Nulla del futuro apparato scenografico era al momento presente eppure all’attore era richiesto un ulteriore passo immaginativo, quello di avvertire l’ambiente, lo spazio d’azione; di agire consapevole della sua ( ancora inudibile) presenza. La configurazione dello spazio scenografico, ispirato a La Gerusalemme Liberata di Torquato Tasso, si sarebbe realizzata per scelta registica nel ricorso a specifici pannelli ispirati a pale d’altare, non raffiguranti i volti dei santi, bensì quelli dei poeti ( Omero, Virgilio, Ariosto e Tasso stesso). I pannelli del carrello di fondo, differenti poiché funzionali ad evocare la stanza del Tasso, sarebbero stati invece diretto rimando ai grifoni e ai serpenti dei bestiari medievali.  Il colore della scena, comprendente toni dal rosso al blu, dal blu all’oro;  avrebbe contrastato con l’uniformità dei costumi richiamanti invece le tonalità dell’ocra e del marrone e sapientemente lavorati a cura di Alessandro Machìa con la consulenza di Sara Bianchi. Uno spazio immaginato dunque ma necessario alla rappresentazione, uno spazio in potenza.

La lacerazione del poeta, o la collisione dell’uomo

Epicentro costante nella successione delle scene, la figura di Torquato Tasso si pone come detonatore silenzioso nel costruirsi delle relazioni. La sua figura si plasma lentamente sulla successione degli altrui dialoghi, come se da lui scaturissero- diversamente per ogni personaggio- le reazioni strabordanti indotte nel rapporto con l’altro.

La sua figura è parimenti ingombrante e silenziosa, tanto nubìvaga e immersa nella realtà immaginifica, quanto concretamente fautrice di reazioni, in lui va perdendosi il confine tra uomo e poeta- e così la distanza tra ammirazione e amore; la lode che lo circonda alla Corte di Alfonso d’Este, si fa incessante motore di solitudine.

Soffermandosi nella prima scena dell’atto III, in corrispondenza del dialogo tra Eleonora d’Este (Alessandra Fallucchi) ed Eleonora Sanvitale (Alessia Giangiuliani) è possibile notare una prima reale testimonianza di costruzione dei due personaggi esplicitata tanto come espressione del reciproco rapporto quanto attraverso l’ombra di Tasso su di loro. Tramite la figura del poeta, che ognuna delle due donne vorrebbe per sé, va facendosi manifesto il dualismo che andrà a configurarle: l’una solare, l’altra lunare; l’una apollinea, l’altra dionisiaco-spirituale.

Analizzando la prossemica che vede le due donne disposte sulla scena, notiamo come vadano a configurarsi come poli opposti di una diagonale, estremi di una linea che taglia lo spazio. La loro polarità permeal’ambiente- vitalità e malattia, godimento e sacrificio- e l’omonimia che le accomuna non si pone altro che non ulteriore fattore di confondimento, come suggerisce lo stesso Machìa quando riflette sull’ambiguità del nome come metafora dell’ambiguità stessa dell’amore.

Punto cruciale dell’atto è la partenza di Tasso, un allontanamento indotto dalla Sanvitale per garanzia di una vicinanza con il poeta e accolto a malincuore dalla D’Este come apice del sacrificio che ha permeato l’intera sua vita. Tra i sottotesti della partenza e dunque dell’allontanamento  si svela in questa sede la questione dell’amore e, più nello specifico dell’amore come capacità di sacrificare il proprio benessere per la gioia dell’altro; eppure nella rinuncia – sembra suggerire il testo, nella rassegnazione dinanzi alla ruota delle fortune, vi è forse anche l’esclusione del contatto, la paura di un’alterità vissuta attivamente, e con ciò l’incapacità di compromettersi, di accogliere l’amore nella sua insita corporeità.

Monologo allo specchio, o sulla poesia che sconfigge la morte

Solo nel discorso con se stessa, situato nella scena terza dell’atto terzo,  Eleonora Sanvitale avverte la necessità di sospendere le sue trame, venir meno alla pianificazione degli eventi, al suo ruolo perennemente agente nelle circostanze, per specchiarsi, riflettersi con invocata autenticità.

Anche il suo spirito è trincerato, ne è riprova la chiara dimensione della solitudine che  suscita la riemersione di ciò che precedentemente era stato detto, ha bisogno che la parola torni a sé, che sia viva e vera e ciò la spinge ad esortarsi, a invocarsi per dirsi finalmente il vero:

“Ma lo ami? per quale ragione non puoi più rinunciare a lui? Confidalo a te stessa!”

Nella domanda si cela il desiderio, nel desiderio l’amore e con esso la volontà di non morire, di essere eternata, per sempre viva nella poesia, nel verso capace di fissarsi, di fermare l’incedere sgretolante del tempo:

“… che la patria conosca il tuo nome, e lo pronunci; e su di te non potrà nulla il tempo …”

La lettera che – per scelta registica- afferra e stringe a sé sembra restituirle la forza e la giustezza delle sue azioni, quelle di una donna volitiva e – suggerisce Machia- energicamente immersa nel gioco della vita.

In tal senso, significativa appare l’interazione con l’oggetto, un foglio aperto, con cui Eleonora si accarezza, e che viene poi progressivamente piegato, nascosto, fino ad essere custodito gelosamente nel petto e nel cuore. Una lettera che simboleggia Tasso stesso e che la donna tiene per sé, perché solo la poesia sa essere più forte della morte.

Ora, attendono alla compagnia le “battute finali”: nei giorni a venire si procederà ad una serie di filage prima del grande debutto. E noi, in trepidante attesa, non potremo che esserne spettatori!

L’altro da sé, ciò che manca

Se Goethe nei suoi personaggi ricerca la complementarietà, quest’ultima si pone in diretta connessione, o meglio in una quasi inevitabilità con la condizione di manchevolezza. La parte che ci è privata, che abbia essa concrete o astratte fattezze, diviene in  egual modo oggetto di disprezzo e desiderio. Eloquente a questo proposito il dialogo che intercorre tra Eleonora Sanvitale ( Alessia Giangiuliani) e Antonio ( Martino D’Amico) all’inizio della IV scena dell’atto III, che va a configurarsi altresì come micro-arena per l’enunciazione di strategie tra loro in dissidio.  Se Eleonora, come già detto auspica la partenza del poeta in quanto allontanamento in grado di garantire la sua vicinanza al Tasso, Antonio sa bene che il fatto stesso di allontanare il Tasso, potrebbe scaraventarlo in un cono d’ombra, allontanare da lui la luce; afferma infatti:

“Potrebbe sembrare che io lo voglia scacciare e non voglio attirarmi questa colpa…”

Eppure, l’articolato dialogo ha in sé un più complesso gioco di litoti e sottigliezze; chiaro è infatti il disprezzo del segretario di stato verso il poeta, meno lo è il desiderio, in ignota misura consapevole, di essere al suo posto, di vestirne panni, tanto più bisognosi, quanto più capaci di attirare l’alloro e il favore delle donne. 

Corrente dominante, tangibile in ogni componente dialogica, l’ambiguità è sovrana, eppure il suo ruolo si limita a nascondere le reciproche mire d’interesse; ad essa Antonio ricorre tentando di nascondere il nocciolo della sua debolezza, la consapevolezza della sua parte manchevole, quella che in relazione a Tasso appare in tutta la sua vividezza. I simulacri di onore e di favore a cui Eleonora sottende, hanno per Antonio un rimando più profondo, alludono alla possibilità dell’Antonio- uomo di , sottolinea il regista, abbandonarsi al femminile con debolezza, un diritto che a Tasso è concesso e a lui non spetta. Tasso  che sprofonda in sé come se il suo cuore fosse al centro del mondo, Tasso che non è altro che un barboncino da salotto ma che, per l’insita puerilità delle sue pose, attrae a sé ogni femminile premura.

Una più diretta focalizzazione sulla figura di Antonio, può consentire di configurarlo- chiarisce Manchia- come boiardo di stato, meglio descritto come appartenente alla cerchia di uomini politici su cui si poggia tutto ma che restano sempre in ombra, senza possibilità di approdo a una dimensione centrale.  In un sottile gioco di rimandi, l’antagonismo tra Sanvitale e Antonio si rivela nei suoi articolati meccanismi collocandosi in un terreno di reciproca consapevolezza.  Eleonora vede ciò che Antonio copre, Antonio indovina ciò che le parole di lei nascondono, ogni affermazione si nega e ogni rifiuto si svela nel suo sottotesto, affermante.

La stessa ripetizione della parola amica/o, così come le carezze di Antonio, hanno in sé una patina ambivalente: articolato su un iterato movimento di avvicinamento e reticenza il dialogo si articola sulla superficie di un velo sottile dove il confine tra seduzione e interesse, tra relazione e pianificazione, appare volutamente labile. Nella rosa dei personaggi, come premesso connessi da un rapporto di reciproca complementarietà, peculiare appare la figura del Duca Alfonso D’Este (Giorgio Crisafi) dedicatario de La Gerusalemme Liberata e presente anche nell’atto I scena II assieme alla sorella, la principessa Eleonora e ad Eleonora Sanvitale.

Incentrata ancora una volta sulla figura di Tasso, la loro disquisizione contribuisce a svelare alcuni elementi propri della personalità del Duca, alimentando la peculiare differenza che lo distingue rispetto agli altri. Irrelato, isolato- come riscontrabile anche nella scelta del suo costume settecentesco- il Duca si connota per un approccio assertivo a tutto ciò che accade; pur non comprendendo a pieno la complessa personalità del Tasso, né la sua propensione all’isolamento creativo, si predispone a lasciarlo agire. Vedendolo da lontano esorta le donne a lasciarlo andare, dicendo: “è sprofondato nei suoi sogni e nei suoi versi, non disturbiamolo, lasciamolo stare..” Anche in questa scena, decisivo è il rapporto di prossemica tra i personaggi disposti in modo triangolare e collegati da precise diagonali di sguardo.  Il duca, che compare dal fondo della scena, prenderà poi sotto braccio la sorella esortandola ad agire insieme, a loro si unirà la Sanvitale e la loro formazione tripartita avrà come sfondo la presenza di un Tasso solitario, apparentemente non visto ma al quale tutti segretamente fanno riferimento.

L’agire di un personaggio in relazione alla presenza dell’altro, il divario mai del tutto chiaro tra l’intenzione e il sentire, così come tra il sentire e l’agire si configura come altro determinante punto di osservazione. Al centro vi è il conflitto del poeta, l’irriducibile distanza tra simbolo e persona, tra l’essenza in quanto tale e le sue superfici riflettenti; nel mezzo si imprime la profonda collisione dell’artista lacerato tra la lode e l’amore, tra la folla acclamante e l’incontrovertibile condizione di solitudine.

DIARIO DI UN BACKSTAGE
APPUNTI DA SPETTATORE STRA - ORDINARI

Generalmente, quali spettatori “esperti”, prendiamo parte al disvelamento di un complesso lavoro professionale: lo spettacolo; la messinscena. Ma, dietro ad una bella “etichetta” si cela sempre un faticoso e minuzioso lavoro. Tutti, in una compagnia, concorrono (o così, almeno, dovrebbe essere) alla miglior resa possibile di quel duro lavoro. Nei giorni scorsi abbiamo avuto l’onore e il piacere di prender parte al lavoro di costruzione e modellamento dell’ultimo progetto, che da poco ha debuttato presso lo Spazio Teatro Faber, firmato dalla compagnia teatrale Zerkalo. Opera letteraria di Johann Wolfgang von Goethe, tra le meno note, il “Torquato Tasso” si rivela un vero e proprio ordigno drammaturgico: un’opera, quella dello scrittore sturmeriano, che segna oltretutto un passaggio sostanziale della sua letteratura. Quella a cui la compagnia – guidata dal regista Alessandro Machìa – si appresta ad intraprendere è, così, una sfida – anche per i tempi record di costruzione – dal considerevole impegno drammaturgico. Un’inedita esperienza, quella vissuta nelle scorse giornate, che decidiamo, pertanto, di consegnare a voi lettori: il nostro piccolo diario di bordo sarà, per noi tutti, traccia di un sentiero verso la conoscenza più piena e consapevole del fare teatro. Iniziamo!

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Di Annagrazia Marchionni
GIORNO  Lunedì 4 dicembre

Il giorno del primo debutto in teatro (primo perché ne seguirà un secondo al Teatro Tordinona) si avvicina sempre più. Il fermento sale. Ci si appresta al montaggio finale di alcune scene prima di procedere al filage previo debutto. Come da ODG gli attori convocati (Roberto Turchetta, Martino D’Amico e Giorgio Crisafi) lavoreranno al modellamento della scena IV atto IV e della scena I/II atto V, che li vede protagonisti. In attesa di iniziare, gli attori si dedicano ad un ripasso delle battute: una strategia, questa, che permette loro di trovare il giusto ritmo drammaturgico nel corso poi delle effettive prove. Ecco che iniziano le prove, nel corso delle quali il regista (Alessandro Machìa) suggerisce delle indicazioni di carattere scenico indicando agli attori come agire sulla e con la scena affinché la loro azione sia il più credibile possibile; in modo tale che il loro agens corporeo si incastri a quello sonoro della voce. Le prove proseguono e continuano le indicazioni registiche affinché la potenza drammaturgica del testo si riveli anche nel gesto degli attori in scena: il tutto deve essere concertato. Dopo aver trovato la giusta frequenza con gli attori protagonisti dell’ultima scena del IV atto, si procede con il modellare i caratteri nel corso della I e II scena dell’ultimo atto, durante le cui prove l’attore Roberto Turchetta – entrato nel vivo del suo personaggio – introduce un’interessante trovata scenica agli occhi del regista che ne delinea insieme un profilo più dichiarato. Dopo alcune prove, segue una piccola pausa: un momento di ordinaria convivialità tra i componenti della compagnia ed il regista che ne rivela un legame consolidato, non unicamente sotto il punto di vista professionale. E credo che questo non sia un elemento da sottovalutarsi: alla fine, essere sinergici sia dentro che fuori la scena non può che essere funzionale alla buona riuscita del proprio lavoro! Ma torniamo a noi: riprendono le prove. Si inizia a modellare l’ultimo atto; l’atto conclusivo in cui il carattere di ciascun personaggio è stato ormai profilato: tutti si rivelano pienamente nelle loro contraddizioni (ma niente spoiler; non ne è questo il momento!). Prove su prove continua la costruzione del V atto, prima di procedere ad una conclusiva prova delle scene dei due atti (consideriamolo un piccolo filage) cosicché consolidarne il ritmo drammaturgico e la sua prossemica.  La giornata volge al suo termine e lasciandosi con alcune considerazioni, ci si dà appuntamento per il mattino seguente.

GIORNO 2   Martedì 5 dicembre

Ecco tornati in sala! Come da ODG si procede al montaggio delle ultime due scene dell’atto conclusivo dello spettacolo. Gli attori, Roberto Turchetta e Alessandra Fallucchi si riuniscono con il regista per una lettura a tavolino del copione per delinearne il ritmo e l’intensità drammaturgica; nonché apportarne eventuali tagli o crasi sintattici. Un esempio, questo lavoro, di come il copione non sia affatto uno strumento di cui servirsi pedissequamente; bensì un funzionale supporto alla costruzione della messinscena. È proprio nel corso della lettura condivisa, difatti, che emergono nuovi ed interessanti punti di riflessione sui caratteri dei personaggi (in particolar modo intorno la figura della Principessa Eleonora) e sulla relazione prossemica tra di essi (elemento, anch’esso, determinante all’andamento drammaturgico dell’opera). La tavola rotonda viene sciolta e si procede, pertanto, alla prova della scena IV atto V durante la quale si aggiungono le consuete indicazioni registiche. Segue una breve pausa, durante la quale si unisce al gruppo l’attore Martino D’Amico (di successiva convocazione) e con il quale, una volta ripreso il lavoro, si procede ad una nuova lettura del copione ed in particolar modo delle scene che lo vedono protagonista. Si propongono, anche questa volta, modifiche e crasi sintattiche al fine di rendere la dizione attoriale il più conforme al vero, nonché delinearne un calzante ritmo drammaturgico. Terminata la nuova lettura, si procede alla prova delle scene IV e V dell’ultimo atto, così da mettere in pratica quanto precedentemente discusso. Dopo una breve serie di prove, ecco che anche questa giornata volge al suo termine. Il debutto è ormai sempre più vicino. Ora, attendono alla compagnia le “battute finali”: nei giorni a venire si procederà ad una serie di filage prima del grande debutto. E noi, in trepidante attesa, non potremo che esserne spettatori!

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